Tredici

Le disinfettava ogni giorno quelle stanze di ibernazione, dovevano assolutamente essere sempre pulite per poter mantenere un ambiente sterile mentre gli scienziati lavoravano al congelamento di esseri umani. Stavano svolgendo un esperimento altamente innovativo per poter mandare sempre più uomini nello spazio, che affrontassero viaggi lunghi anche diversi anni. Fino ad allora l’uomo ibernato da più tempo era Julius Gonzalez, un uruguaiano mantenuto in fase di sospensione crionica già da quattro anni. Come lui, di persone che si erano prestate a tali esperimenti, ce n’erano un centinaio: uomini e donne volontariamente concessi alla scienza più per necessità economica che per interesse nel progresso.

Per molti paesi quel progetto era considerato illegale ma non nella Corea del Sud dove, oltre alla clonazione di animali, era possibile effettuare diversi esperimenti scientifici dai controversi esiti etico-morali. Ma i coreani alla morale ci pensavano poco, specialmente se potevano aggiudicarsi il primato di potenza mondiale in ambito genetico.

Tredici, chiamato così in quanto tredicesimo figlio di una coppia di origine italiana – due persone piuttosto sbrigative – era uno degli inservienti incaricati di pulire quelle camere. Era un uomo sulla quarantina, celibe, che amava la birra e le telenovelas argentine, viveva da solo nel suo piccolo monolocale al quinto piano di un palazzo storico ed era nato di venerdì tredici (ma i suoi genitori avevano collegato le due cose solo qualche mese dopo la sua nascita e gli scocciava più pensare a un nuovo nome che a fingere di non essere scaramantici). Tredici era il più zelante tra tutti gli inservienti, quello che faceva straordinari non pagati pur di fare bene il suo lavoro. Non che ci tenesse a fare bella figura con i capi, o per avere chissà quale riconoscimento, era più che altro un’indole naturale, un’ossessione compulsiva nei confronti dello sporco, quasi una lotta contro quegli esserini microscopici che tentavano di colonizzare le scrivanie, i pavimenti e i suoi indumenti. Dovevano richiamarlo all’ordine più volte per farlo smettere, perché era eccessivo persino per i suoi capi.

Però Tredici aveva un’altra peculiarità, era affascinato dalle camere frigo (come le chiamava lui) e soprattutto dall’idea di risvegliarsi milioni di anni dopo, in un’altra epoca, con altre usanze e nuove tecnologie, proprio come in Futurama.

Chissà come sarebbe stato il mondo tra duemila anni, si chiedeva. Ogni giorno gli acari perdevano sempre più interesse agli occhi di Tredici, lasciando posto alle grandi camere frigo con dentro fortunatissimi umani che avrebbero conosciuto un nuovo mondo, a lui inaccessibile.

Fu così che una sera, quando ormai tutti erano tornati a casa, posò il mocio al muro per fermarsi di fronte al vetro di una delle novantanove camere d’ibernazione (sì perché nel frattempo due persone erano accidentalmente decedute congelate, appiattendo così la già debole linea dell’elettrocardiogramma collegato ai loro corpi). Quello che ora frapponeva Tredici e la sua scoperta di un nuovo mondo era un semplice vetro. I suoi occhi brillavano alla vista di quel corpo più morto che vivo, pronto e impacchettato per il futuro.

Nella sua vita Tredici non aveva mai avuto l’occasione di esplorare il mondo. All’età di quindici anni aveva iniziato a lavorare per il banco frutta di uno zio ubriacone e, quando questi qualche anno dopo gli morì di fronte, stecchito dalla puntura di cinquantamila vespe di un nido che si frapponeva tra lui e il suo pisolino da sbronzo, aveva deciso di lasciare il banchetto per arruolarsi nell’esercito; ma visto che spendeva più tempo a disinfettare il fucile anziché a sparare, decisero di assumerlo come addetto alle pulizie. Fu così che salì la scala sociale come inserviente, finendo nel laboratorio di genetica del progetto militare ordinato dal presidente coreano. Adesso però la sua vita aveva preso una nuova piega.

Decise, infatti, di occupare una delle celle vuote del laboratorio. Era già da diverso tempo che pensava di proporsi come volontario, ma visto che non aveva voglia di aspettare di seguire la prassi burocratica, dal momento che doveva già attendere duemila anni, pensò bene di velocizzare i tempi congelandosi da solo. Per questo, Tredici, azionò la camera frigo impostando il timer su “2 mil” (due millenni) – in realtà la impostò su “2 min” (due minuti) ma non se ne accorse – ed entrò, richiudendo la cella e aspettando che il gelo facesse il resto.

Sentì girare la testa e il freddo avvolgerlo profondamente. Finalmente il processo d’ibernazione era cominciato. La sua mente iniziò a vagare e tutto girò vorticosamente.

Il timer scattò e la cella si riaprì.

Tredici si destò lentamente. Era stordito come se avesse fatto un sonnellino pomeridiano e si fosse risvegliato più rintronato di prima. Poi finalmente ricordò tutto. Si era congelato per poter fare un giro nel futuro. E adesso il viaggio era arrivato al termine e la porta della camera frigo si era riaperta duemila anni dopo. Uscì un po’ infreddolito, piantò un breve starnuto e si guardò intorno. La stanza era come l’aveva lasciata e stranamente non c’era nessuno. Rimase un po’ deluso da questi uomini del futuro così poco ospitali. Un uomo si fa congelare per duemila anni e al suo risveglio non c’è neanche qualcuno a portargli un cocktail di benvenuto. Ma Tredici non era il tipo da portare rancore a lungo, tant’è che si dimenticò della cosa l’istante dopo averla pensata. Ora poteva esplorare il nuovo mondo.

La prima cosa che fece fu quella di aprirsi una birra. Prese dal frigobar della stanzetta degli inservienti una birra chiara. La birra era la stessa di sempre ma il sapore era nettamente superiore. Un’autentica goduria! Questi uomini del futuro la sapevano fare senz’altro meglio. Decise poi di farsi un giro della città e notò che la Luna brillava più forte rispetto a quanto si ricordava. E l’aria! Com’era più fresca e piacevole! Notò che gli abitanti del futuro avevano lasciato la città così com’era ai suoi tempi. Le strade, i vicoli, persino i negozi erano gli stessi di duemila anni prima. A quanto pareva, erano molto legati alle loro radici. Una grande differenza con gli abitanti della sua epoca ossessionati dal futuro e dal progresso.

Tredici si fece un giro dell’isolato e rimase perplesso, forse era troppo identico a quanto si ricordava e questo lo deluse un poco. Probabilmente la faccenda che si desidera sempre quello che non si ha, un po’ vera lo era. In effetti, ora che aveva raggiunto l’obiettivo, non era poi così entusiasmante come si immaginava. A ripensarci poteva godersi tranquillamente il suo presente senza perdere tutto quel tempo nell’attesa del futuro. Chissà com’era il resto del mondo, si chiedeva. In realtà non poteva fare un confronto con il passato, perché il mondo non l’aveva mai girato ai suoi tempi, così decise che questa volta l’avrebbe visitato tutto.

Montò sulla sua bicicletta cigolante che un tempo usava per andare al lavoro tutti i giorni, prese lo zainetto con il kit di pulizia per la sua intramontabile lotta ai germi e sfrecciò davanti all’edificio del suo ex posto di lavoro, alla scoperta del mondo.

Nel frattempo, il dottor Min-Jung, uno degli scienziati che lavorava al progetto, arrivò presto al centro sperimentale di genetica e clonazione. Doveva risolvere al più presto la questione dei due volontari deceduti e capire come diamine fossero morti ibernati. Se la faccenda fosse arrivata all’orecchio dei finanziatori, ci sarebbero state gravi ripercussioni al progetto e il suo responsabile lo aveva avvisato che se non avesse trovato una soluzione, una delle teste che avrebbe messo al fresco sarebbe stata certamente la sua. Mentre girava la chiave per aprire il portone dell’edificio, si vide sfrecciare a fianco un uomo in bicicletta che riconobbe essere uno degli inservienti. Dove diamine andava a quell’ora del mattino?


Autrice: Consuelo Laganà

Illustrato da: MMPasteur

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